Marilyn Manson: The Pale Emperor
Di Brunella AntonaciMarilyn Manson torna con un nuovo album, “The Pale Emperor”; sono trascorsi 3 anni dal precedente “Born Villain”, disco bistrattato sia dalla critica che dai fan per una certa ripetitività, sia nei temi proposti che nella cornice musicale impiegata. “The Pale Emperor” è un disco molto “sentito”, almeno in base a quanto dichiarato dallo stesso Manson prima dell’uscita. L’artista, nel corso della lavorazione ha perso da madre, da anni in lotta contro la demenza e l’Alzheimer. Negli ultimi tempi Manson sembra aver lasciato per strada i chili accumulati in questi ultimi anni dopo una vita di eccessi. Anche aver frequentato un rehab sembra aver dato i suoi frutti restituendo una voce che, seppur lontana da quella degli esordi (20 e più anni passati a gridare sui palchi e qualche sostanza di troppo hanno influito sicuramente), ha riacquistato spessore.
Già dall’apertura, affidata a “Killing Strangers”, l’intenzione del rocker maledetto è chiara; batteria campionata, basso potente in primo piano, chitarre corpose nel ritornello e voce “malata” impegnata a narrare un testo controverso. Ad aver contribuito alla stesura dell’album e, probabilmente, ad aver aggiunto qualcosa di inedito alle atmosfere che si respirano, è stato Tyler Bates, un compositore di colonne sonore per il mondo della televisione e per quello del cinema (sua, ad esempio, è la colonna sonora di “The Guardians of the Galaxy”).
Gli ingredienti sembrano essere tutti al loro posto per coinvolgere l’ascoltatore; con il successivo brano “Deep Six”, singolo che ha anticipato l’uscita, il ritmo sale, così come il volume delle chitarre e un senso di oppressione che riesce ad affascinare. Rispetto agli ultimi dischi del “reverendo”, gli episodi risultano più centrati, i brani sono più corti e difficilmente annoiano, grazie a piccoli cambiamenti e a particolari affascinanti, che invogliano all’ascolto. Oltre alla citata “Deep Six”, si segnalano tra i brani migliori “Slave only dream to be a king” e “Third Day of a Seven Day Binge”, ma anche l’ultima “Odds of Even”, un dark blues inquietante, non può lasciare indifferenti.
Emerge meno il lato industrial di Manson e, vedendo i risultati ottenuti rispetto a quelli degli utlimi anni, sul piano musicale la scelta sembra ripagare alla grande; una versione noisy di classici blues rock potrebbe essere la carta vincente per il futuro.
Un ingrediente che fornisce all’album una marcia in più rispetto, ad esempio, a quanto avvenuto per “The hig end of low” del 2009, è rappresentato, infatti, dalla vena blues, che permea la maggior parte dei brani. La versione deluxe dell’album presenta anche un Manson inedito, che rielabora 3 dei brani presenti nella tracklist in chiave acustica, lasciando maggiore spazio alla sua voce sgraziata ma che ancora sa regalare emozioni, di qualunque genere.
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